Varese News, 16 Settembre 2005



"Non dimenticate l’Afghanistan"

Samarate - Intervista a Sohaila, delegata di Rawa, l’associazione afgana che si batte per l’emancipazione femminile in un paese in cui nascere donna può essere una vera maledizione.
Raffaella Rogora

Un incontro riuscito e importante quello di giovedì sera alla Villa Montevecchio di Samarate, che può essere motivo di vera soddisfazione per l’amministrazione comunale che lo ha promosso e organizzato.

Sohaila è una ragazza afgana dallo sguardo dolce e determinato, è giovanissima (classe 1980) ma ha le idee chiare: garantire un futuro migliore alle donne del suo tormentato paese, l’Afghanistan. Lì, per molti uomini, le donne valgono quanto un qualsiasi animale e servono solo a partorire nuovi figli. Sohaila ha più o meno la mia età quindi, guardandola penso che potremmo avere gli stessi pensieri, gli stessi dubbi, magari gli stessi problemi… invece capisco chiaramente che la ragazza che ho di fronte non è una semplice studentessa con tanti sogni nel cassetto, bensì una donna sicura di sé, ben conscia della delicata missione che ha scelto o in cui comunque si è trovata travolta.

Sohaila, sei qui in Italia a rappresentare l’associazione RAWA. Che cos’è e che obiettivi ha?

«Rawa significa letteralmente associazione rivoluzionaria di donne dell’Afghanistan, è nata nel 1977 e da sempre si batte per promuovere i diritti dei bambini ma soprattutto delle donne. Rawa vuole la democrazia, la libertà e il rispetto delle donne, tutti concetti scontati in Occidente, ma che in Afghanistan stanno provando a farsi sentire solo adesso.

Tutti i membri effettivi di Rawa sono donne. Ci sono molti uomini che sostengono le nostre attività, e il loro appoggio per noi è fondamentale, ma il lavoro, la gestione dei progetti, l’organizzazione è tutta rigorosamente al femminile».

Rawa si batte per la democrazia, per l’idea di uno stato laico, crede nella libertà, anche religiosa e vuole il rispetto delle donne. In un paese come l’Afghanistan, culla di molte madrase (le scuole coraniche) che fanno della Sharia la legge unica e incontrastata, il vostro operato è molto pericoloso oltre che illegale. Come fate a lavorare, come vi organizzate?

«Facciamo tutto di nascosto, tramite i passaparola. Non è certo semplice ed è molto pericoloso, ma le minacce non fermano la nostra voglia di cambiamento. In Afghanistan il nome di Rawa non appare mai in modo chiaro, ci organizziamo in silenzio, facendo molta attenzione. In Pakistan invece siamo più libere di lavorare, non siamo illegali. Abbiamo aperto molti orfanotrofi, un ospedale e delle scuole. Crediamo infatti che l’istruzione sia la migliore arma con cui difendersi dall’estrema ignoranza di molta gente del mio paese».

Meena, la fondatrice di Rawa, è stata uccisa nel 1987 a causa del suo lavoro da alcuni mujaheddin supportati dall’Unione sovietica. Voi stesse, anche oggi, anche ora, rischiate la vita. Chi o che cosa vi da la forza, il coraggio e la speranza per continuare questa battaglia?

PeaceReporter, 18.9.2005

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Mahmooda, portavoce di RAWA. La pensa così anche Mahmooda, 26 anni, dirigente del Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afgane). “Ovviamente questo parlamento sarà solo uno strumento politico in mano agli americani e Karzai, che lo useranno solo per far passare le decisioni già prese da loro. Ovviamente sarà un parlamento dominato da criminali di guerra e fondamentalisti e che quindi non porterà cambiamenti democratici in Afghanistan. Ma proprio per questo non è giusto rimanere a guardare: bisogna provare a fare quello che si può, cercando di far eleggere anche delle donne e dei candidati democratici. Certo, saranno pochissimi, ma anche una sola voce può essere importante, come ha dimostrato il coraggio di Malalai Joya, la donna che prese la parola alla Loya Jirga contro i fondamentalisti e i signori della guerra che stavano davanti a lei. Quel suo gesto è stato importantissimo. Il dovere degli americani è smetterla di sostenere questa gente che ha massacrato il nostro popolo, di smettere di utilizzarla per controllare l'Afghanistan. Che disarmino questi criminali che loro hanno armato e che se ne vadano. Non possono rimanere qui per sempre con la scusa dell'insicurezza, se invece non fanno niente per garantirla”.

«Gli occhi dei bambini, gli sguardi delle donne, le persone, la mia gente».

Che tipo di atteggiamento hanno le donne che si avvicinano a Rawa per la prima volta? Sono impaurite di essere magari scoperte o sono incoraggiate dai familiari, dal marito?

«Dipende. Alcune fanno tutto di nascosto, ma la maggior parte sono incoraggiate dal marito e dalla famiglia. Non bisogna pensare che tutti gli uomini siano uguali, molti di loro sostengono Rawa e vorrebbero una situazione migliore per le donne del mio paese».

Perché secondo te, i talebani sono così ostili verso le donne e cosa significa vivere con il controllo talebano?

«I talebani interpretano il Corano in modo sbagliato, sono ignoranti, chiusi, retrogradi. Le donne con loro praticamente non vivono. Non possono uscire di casa, devono essere sempre coperte dalla testa ai piedi, non possono indossare scarpe con il tacco: sentire il rumore provocato dal passo di una donna che indossa i tacchi è peccato. Anche mangiare un gelato è haram, proibito. I talebani girano per le strade con la frusta e non esitano a farne uso se necessario».

Cosa è cambiato in Afghanistan dopo l’intervento americano?

«Praticamente… molto poco. Le donne possono andare a scuola, il burka non è più obbliagatorio, ma se ci si addentra ad osservare la situazione nelle provincie.. beh, la situazione resta tale e quale. La violenza è aumentata, i mujaheddin sono i veri padroni delle province e il governo può fare poco niente. I militari che sono presenti anche ora per garantire un po’ di sicurezza al paese hanno paura a spostarsi da Kabul, perché sanno che nelle province troverebbero l’inferno. La realtà è ben diversa da quella che raccontano i media. I talebani sono stati cacciati, ma al loro posto sono arrivati nuovi fondamentalisti».

Credi all’ idea di "democrazia esportabile"?

«No. La democrazia deve nascere dal popolo, deve germogliare tra le coscienze della gente. Sono le persone che devono scegliere, uomini e donne, tutti insieme. Molti intellettuali sono scappati dal mio paese, perché assetati di democrazia. C’è bisogno di unione tra la gente, perché solo le persone insieme possono scegliere la libertà».




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