The Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA)
RAWA


 

 

¡NO MAS!, June 11, 2009

Afghanistan oltre il fondamentalismo mediatico

Come rappresentanti di RAWA vogliamo dar voce alle necessità e alle speranze del popolo afghano, soprattutto alle donne.

di Marco Besana e Ilaria Brusadelli

Non è la prima volta che ¡NO MAS! si occupa di Afghanistan. È passato circa un anno dalla lunga intervista che abbiamo fatto a Laura Quagliuolo, presidente del Cisda, il Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, ed oggi torniamo a trattare lo stesso tema con nuove interlocutrici, presentateci proprio da Laura in un piovoso pomeriggio di maggio.

Si tratta di Marian e Sahar, due esponenti dell’associazione afgana RAWA, portavoce della battaglia in difesa dei diritti delle donne afghane nel mondo che proprio lo scorso maggio si trovavano in Italia per una serie di incontri volti a far luce sulla complicata situazione della popolazione femminile in Afghanistan; una situazione troppo spesso trattata superficialmente e mai adeguatamente affrontata dall’intero mondo occidentale.

RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan), nasce nel 1977 a Kabul come organizzazione socio-politica indipendente di donne afghane in lotta per i diritti umani e la giustizia sociale in Afghanistan.

L’associazione fu fondata da un gruppo di donne intellettuali afghane guidate da Meena, assassinata nel 1987 a Quetta, in Pakistan, dagli agenti afghani dell'allora KGB, in connivenza con i fondamentalisti di Gulbuddin Hekmatyar.

L'obiettivo di RAWA era coinvolgere un crescente numero di donne afghane in attività politiche e sociali volte ad ottenere diritti umani per le donne e contribuire alla lotta per la ricostituzione in Afghanistan di un governo basato su valori democratici e secolari.


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Nonostante l'opprimente atmosfera politica, RAWA fu ben presto coinvolta in molteplici attività in ambito socio-politico, comprendenti sia istruzione, sanità ed economia, che attività politica. Prima del colpo di stato diretto da Mosca nell'aprile del 1978 in Afghanistan, le attività di RAWA erano limitate alla propaganda per i diritti delle donne e la democrazia, ma dopo il colpo di stato e, in particolar modo, dopo l'occupazione sovietica dell'Afghanistan nel dicembre 1979, RAWA fu direttamente coinvolta nella resistenza.

Allo scopo di indirizzarsi ai bisogni immediati delle donne rifugiate e dei bambini, RAWA organizzò scuole con alloggi per bambini e bambine e un ospedale dotato di nuclei mobili a Quetta, in Pakistan. RAWA promosse inoltre corsi di infermeria, corsi di alfabetizzazione e corsi per l'avviamento professionale delle donne.

Da allora le attività dell’associazione proseguono e le donne che ne fanno parte cercano di portare la loro testimonianza in tutto il mondo, organizzando incontri e dibattiti allo scopo di sensibilizzare il mondo occidentale alla loro causa, combattendo contro il fondamentalismo e il regime più o meno dichiarato del loro Paese e, troppo spesso, contro l’indifferenza di tutti noi.

Laura ci accoglie come due amici che non si vedono da un po’. Ci sono rari momenti nella vita in cui non serve conoscersi per sentirsi uniti, è come se ideali e sogni sanno incontrarsi molto prima di conoscenze, esperienze, caratteri. Sahar e Mirian ci aspettano in silenzio, i loro bambini stanno dormendo nella stanza accanto. In questo clima famigliare, riscaldato da un tè, ci sediamo attorno a un tavolo ed iniziamo a parlare di quel famoso quanto sconosciuto Paese: l’Afghanistan.

Come siete entrate a far parte dell’associazione RAWA?

M: Ho perso mio padre all’inizio dell’invasione russa e io e la mia famiglia siamo scappati; ci siamo rifugiati in un campo in Pakistan. Sono rimasta lì per due anni, poi ho iniziato a frequentare una scuola di RAWA e lì ho trascorso il resto della mia vita. Mi sono diplomata, poi potevo scegliere liberamente cosa fare: se tornare dalla mia famiglia o restare. Ho deciso di rimanere per lavorare per l’associazione visto il grande cambiamento che ha portato nella mia vita questa esperienza. A scuola non ho solo studiato: ho preso coscienza dei miei diritti. I valori di democrazia e libertà hanno iniziato a far parte di me su quei banchi di scuola.

RAWA ha diversi progetti, sia in Afghanistan, sia in Pakistan e io ho lavorato in diversi centri con differenti mansioni. Attualmente sono una rappresentante dell’organizzazione, giro il mondo per far sì che la situazione delle donne afghane venga conosciuta.

S: Anche la mia famiglia ha lasciato l’Afghanistan con la rivoluzione sovietica e ha riparato in Pakistan nell’“area tribale”. Mio papà voleva che tutti i suoi figli venissero istruiti, ma in quella zona di confine non esisteva una scuola. Io sono stata una delle prime ragazze nella scuola di RAWA. Dopo il mio diploma ho chiesto alla mia famiglia di restare e per sette anni ho insegnato in un campo di rifugiati; ora, come Marian, lavoro con i media come portavoce dell’associazione in Afghanistan, ma soprattutto nel mondo.

Perché pensate che sia importante girare il mondo per far conoscere la situazione delle zone donne afghane?

M: L’Afghanistan è un angolo del mondo assolutamente dimenticato. I governi occidentali e i loro media dovrebbero concentrarsi su quello che vuole la gente, ma nessuno glielo chiede, soprattutto alle donne. Le volte che sono intervenuti in Afghanistan è stato per combattere e dare un supporto militare e finanziario nella guerra contro il fondamentalismo, con il risultato di alimentare la tensione e, con essa, il fondamentalismo stesso. È importante che il mondo sappia che il popolo afghano non è un popolo fondamentalista e terrorista; al contrario vuole che le persone siano sicure, libere e vogliono una vita migliore per i propri figli. Come rappresentanti di RAWA vogliamo dar voce alle necessità e alle speranze del popolo afghano, soprattutto alle donne.

S: Oggi viviamo in un “villaggio globale”, quindi il fondamentalismo non è una questione solo degli afghani: se non fermiamo questo pericolo il rischio è che si diffonda sempre di più. Parlare al mondo quindi non serve solo a noi per evitare delle visioni distorte, ma anche all’Occidente per evitare l’espansione del fondamentalismo anche in altre aree.

Sovietici, talebani, “signori della guerra” e oggi ancora talebani. Questi passaggi di potere che effetto hanno avuto sulla condizione delle donne?

M: Le donne sono le prime vittime delle guerre, soprattutto dove c’è il fondamentalismo. In Occidente c’è la convinzione che siano solo i talebani i fondamentalisti. In realtà tutto il sistema politico è fondamentalista, dai partiti politici ai membri dell’Alleanza del Nord, passando per i grandi coltivatori e commercianti di droga.

S: Nelle province sotto il controllo dei talebani tutto è rimasto esattamente come prima: le donne sono chiuse in casa, sono obbligate a indossare il burqua, alcune sono state bruciate con l’acido solo perché stavano andando a scuola. Nelle zone in mano all’Alleanza del Nord le cose non vanno molto meglio, anzi può essere anche peggiore: i matrimoni forzati sono all’ordine del giorno e se qualche parente della donna non è d’accordo, tutta la famiglia paga; si susseguono stupri, rapimenti e violenze contro le donne. Spesso i colpevoli siedono al governo, ma se un politico viene denunciato per un sopruso, la massima pena che lo può colpire è un semplice cambiamento di incarico. Ogni giorno i pochi ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Anche oggi molti afghani non vedono riconosciuti diritti fondamentali e non hanno accesso a servizi primari quali l’assistenza sanitaria, l’acqua potabile, l’elettricità, la possibilità di trovare un lavoro. La percentuale di suicidi fra le donne che non sopportano una simile condizione di vita è altissima, e soprattutto nelle zone libere rispetto a quelle tenute sotto il controllo dei talebani.

Poco tempo fa sono entrate in vigore le cosiddette “leggi sciite”. In cosa consistono e cosa pensate della reazione della comunità internazionale?

S: In parlamento siedono sessantotto donne, ma la loro presenza non conta niente. Le leggi talebane riguardano solo la minoranza sciita, che rappresenta il 15% della popolazione afghana, e impongono alle donne di uscire coperte e negano loro la possibilità di accedere all’istruzione o di essere visitate da un dottore senza il consenso del marito. Oltre a questo, le leggi consentono, di fatto, lo stupro delle donne da parte del loro coniuge. Per noi non è stata una sorpresa, anzi, noi ci aspettiamo anche di peggio. Il fatto che il parlamento afghano abbia promulgato queste leggi è segnale i fondamentalisti sono anche quelli che siedono in parlamento in giacca e cravatta. La comunità internazionale ha solo condannato le leggi, ma non ha fatto nessun tipo di pressione sul governo Karzai. Questo forse significa che le potenze occidentali sono in Afghanistan solo per i loro interessi e non per il popolo afghano.

Forse questo fatto riguarda noi italiani in particolare, visto che il nostro governo è incaricato di ricostruire il sistema giudiziario afghano...

S: Al momento in Afghanistan il sistema giudiziario è di tipo mafioso, completamente corrotto. È davvero necessario fare qualcosa.

Quanto è funzionale il fondamentalismo islamico al mantenimento del potere in Afhganistan?

M: Il fondamentalismo islamico è uno strumento per controllare la donna e, in generale, la popolazione afghana. Se le donne e la popolazione fossero istruite e conoscessero davvero i loro diritti, non accetterebbero la loro condizione. Lo sviluppo e il progresso significherebbero la fine del fondamentalismo e, con esso, dei privilegi di questa classe politica.

Come è percepita l’attività di RAWA dalla popolazione femminile?

M: Il messaggio di RAWA porta benefici alle donne, quindi il nostro lavoro è apprezzato e sostenuto dalla gente comune. RAWA deve continuare la sua attività perché la gente lo vuole. Tuttavia, fin dall’inizio (1977 n.d.r) abbiamo spesso lavorato nell’anonimato per questioni di sicurezza e infatti molte delle nostre scuole non sono registrate sotto il nome di RAWA.

S: Le donne che frequentano le scuole di RAWA sono numerose e hanno diversa estrazione sociale, lingua e etnia. Molte di loro crescono in queste scuole e, una volta terminati gli studi, proseguono le attività dell’associazione insegnando quello che hanno imparato. Ogni donna vuole la libertà, perciò è normale che appoggi la nostra attività.

Eppure in Italia molti si chiedono ancora se sono le stesse donne a voler restare nella condizione in cui si trovano... Recentemente abbiamo saputo che una vostra scuola in Pakistan è stata chiusa. Come è andata quella vicenda e com’è la situazione attualmente in quell’area?

M: La nostra scuola è stata chiusa dalle autorità pakistane dopo le forti pressioni dell’ambasciata afghana con la quale sono molto legate. La motivazione ufficiale è che la scuola “disturbava” con il rumore degli alunni il quartiere residenziale in cui si trovava. In realtà le nostre scuole danno fastidio ai vertici perché non accettano certe imposizioni, come separare ragazzi e ragazze o appendere la foto di Karzai al muro.

In questo ultimo periodo si parla sempre più spesso dell’avanzata talebana in Pakistan, qual è la situazione attuale del Paese?

M: Dopo diversi scontri tra talebani e autorità pakistane, si è arrivato a un accordo lasciando ai talebani la possibilità di applicare la Sharia nei territori occupati.

La presenza delle truppe straniere in Afghanistan e in Pakistan ha rafforzato il fondamentalismo. I talebani si sono rafforzati in seguito ad una serie di fattori, quali la debolezza del parlamento pakistano, che vede continui scontri fra i due principali partiti; la crisi economica; l’attacco americano. Soprattutto l’invasione degli Stati Uniti ha fatto sì che la popolazione aumentasse il suo sostegno ai fondamentalisti. In realtà a nessuno schieramento importa realmente dei civili. Come in Afghanistan, anche in Pakistan il cambiamento deve avvenire dalle persone, che devono avere gli strumenti necessari per far propri i valori di democrazia e libertà. Tutto questo non potrà mai essere realizzato con le bombe; è fondamentale lavorare per la pace e la sicurezza.

Secondo voi, un vero cambiamento in Afghanistan è più facile che arrivi dall’esterno, attraverso la pressione di governi o gruppi stranieri o dall’interno?

M: Il cambiamento deve venire dalle persone, sicuramente non attraverso le bombe. Potrà avvenire solo quando la popolazione otterrà i propri diritti, la propria libertà e sicurezza.

Voi girate il mondo per far conoscere la reale condizione delle donne afghane all’Occidente. Avete modo di osservare e frequentare la nostra realtà. Come vedete le donne occidentali?

M: Possiamo imparare molto dalle lotte delle donne occidentali per i loro diritti, trent’anni fa anche loro hanno dovuto lottare e ancora oggi devono difendere ciò che hanno ottenuto. Ci da anche molta speranza vedere che le lotte femministe degli anni ’70 hanno portato a dei risultati, significa che non è impossibile la nostra battaglia.

«Sì, è vero che le donne per esempio in Italia, attraverso il loro impegno hanno ottenuto importanti risultati – interviene Laura – ma, in questo momento storico sono loro che ci stanno dando una lezione di coraggio. Le loro battaglie richiedono molto più coraggio».

M: forse ce la stiamo dando entrambe!

Quest’anno ci saranno le elezioni politiche in Afghanistan (previste per agosto 2009, n.d.r.). Tra chi possono scegliere gli elettori?

M: Le elezioni in Afghanistan sono presidenziali e quest’anno vedranno sfidarsi un numero ristretto di candidati (Per saperne di più: Afghan presidential election, 2009). RAWA non incoraggerà le persone a votare. L’Afghanistan sotto l’occupazione avrà sempre un’amministrazione fantoccio e probabilmente tutto è già stato deciso, più o meno come è successo con Karzai. Le persone hanno votato ingannate da grandi promesse di cui nessuna è stata mantenuta, basti pensare alla produzione di droga aumentata e ai diritti delle donne che ancora una volta sono stati violati.

E voi, per cosa urlereste ¡NO MÁS!?

S:(risata) Oh, ¡NO MÁS! guerre, ¡NO MÁS! oppressioni, ¡NO MÁS! povertà, ¡NO MÁS! ingiustizie, ¡NO MÁS! droghe, ¡NO MÁS! rapimenti… ci sarebbero così tante cose a cui dire ¡NO MÁS!

M: ¡NO MÁS! al silenzio del mondo, intendo nelle situazioni come quelle dell’afghanistan della comunità internazionale, la nostra battaglia deve essere è anche la vostra battaglia, dobbiamo lottare per tutti i fondamentalismi, per tutte le donne.

Una profonda ammirazione per le donne che abbiamo davanti ci accompagna alla porta. Il loro coraggio, forse, sta soprattutto nel aver messo al mondo due figli da far crescere in una guerra. Una guerra in cui anche loro sono nate, visto che da 30 anni l’Afghanistan non trova pace. Tutto questo, però, non le ha portate a dire la frase «non posso mettere al mondo un figlio in un mondo così.

«È un vero atto di coraggio – dice Ilaria a fine intervista – mettere al mondo dei bambini in un tale contesto».

«È un atto di vita – aggiunge Laura».

Le parole di Laura concludono nel modo migliore questo incontro. Non possiamo aggiungere altro.

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