Le Tavernuzze, maggio 2002



"I Semi Della Rivoluzione"
Elena Laurenzi

8 marzo 2002. Una delegazione composta da italiane di diverse associazioni, organizzata dalle Donne in Nero, è a Peshawar, in Pakistan, per celebrare la Giornata Internazionale della Donna con le attiviste di RAWA (Revolutionary Association of Women of Afghanistan) e Hawca (Humanitarian association of women and children in Afghanistan) .

RAWA, l'Associazione rivoluzionaria delle donne dell'Afghanistan, è attiva da 25 anni. E' stata fondata a Kabul nel 1977 da un gruppo di donne intellettuali sotto la guida di Meena, una insegnante e poetessa che fu assassinata nel 1987 dagli agenti afghani dell'allora KGB in connivenza con i fondamentalisti di Gulbuddin Hekmatyar. E' l'unica associazione femminile afghana che sostiene una posizione politica in difesa della laicità e della democrazia e contro ogni forma di fondamentalismo. Accanto al lavoro politico, di informazione e di denuncia, RAWA svolge un lavoro sociale capillare sia in Afghanistan che tra i profughi in Pakistan: ha aperto scuole, orfanatrofi, corsi di alfabetizzazione per le donne adulte, gruppi di sensibilizzazione sui temi della salute, dei diritti, della democrazia; opera sul territorio con equipe medico sanitarie mobili e gestisce un ospedale a Quetta; ha avviato attività di microimprenditoria per le donne (laboratori di sartoria e di tessitura dei tappeti, piccoli allevamenti di polli o di capre, produzione di salse e marmellate..), e fornisce assistenza legale e sociale alle famiglie dei prigionieri politici, alle donne maltrattate, alle vedove, ai bambini traumatizzati. In una popolazione femminile sofferente per gravi problemi depressivi - le statistiche parlano di percentuali che rasentano il 98%- le donne di RAWA hanno cercato di mantenere viva la consapevolezza dei diritti e la speranza di un cambiamento. E nella desertificazione della società civile devastata dalla guerra, dal fanatismo, dall'esilio, hanno preservato semi di cultura e di civiltà che rappresentano la sola prospettiva di futuro.

Quello che segue non è propriamente un diario di viaggio. Piuttosto alcune tappe di un percorso di conoscenza che ha l'obiettivo di rompere gli steccati e di stabilire nuovi canali di comunicazione, di comprensione, di intesa.

I SEMI DELLA RIVOLUZIONE

Peshawar viene comunemente definita "la più grande città afghana" . Dei 4 milioni di abitanti, 3 sono infatti profughi fuggiti dall'Afghanistan in una processione drammatica che si è sviluppata in ondate successive: la resistenza contro l'occupazione sovietica, la guerra civile tra le fazioni dei Mujaeddin del Nord, il regime dei Talebani, la siccità, le bombe americane, il terremoto. Molti sono qui da oltre 20 anni, senza alcuna prospettiva di inserimento: il Pakistan è uno dei paesi più poveri del mondo, e la disoccupazione tocca la soglia del 65%. La maggior parte dei profughi non gode dello statuto politico di rifugiati, e vive sotto la minaccia del reimpatrio o della galera.

Vive nei campi o in quartieri sordidi come Kachaghari, Arbabroad o Afghan Colony, dove le capanne di fango sorgono tra i cumuli dei rifiuti, spesso manca la corrente, il cibo, l'acqua potabile, l'aria è intrisa dal puzzo nauseante delle fogne a cielo aperto, le strade sconquassate sono impraticabili per le pozzanghere, e si respira la tensione e la paura per la presenza dei fondamentalisti. Molti ne sono arrivati anche negli ultimi mesi, reduci da una guerra persa, ancora più biechi e violenti.

A 30 km da Peshawar sorge il più grande campo profughi del Pakistan , il campo di Jalozai, che contiene più di 70.000 persone, e ha la fama di essere uno dei più orrendi campi profughi del mondo. Lo chiamano anche "Plastic City" , a motivo delle tendopoli che sorgono al suo interno. Sotto la stessa plastica vivono famiglie numerose, spesso anche 10 persone. La mortalità è altissima, la gente e soprattutto i bambini muoiono di freddo, di malattie, di stenti, di inedia. L'accesso al campo è interdetto ai giornalisti e agli stranieri. Neanche Kofi Annan, in visita ufficiale in Pakistan nel marzo del 2001, ha potuto visitarlo [1].

A Jalozai si arriva attraverso un cammino desolato e desertico. L'aria è irrespirabile, la polvere gialla copre tutto. Ai lati della strada, avvolte dal fumo nero dei pneumatici che servono da combustibile, prosperano le fabbriche di mattoni dove lavorano, dall'alba al tramonto, gli uomini e i bambini del campo. Sotto il sole rovente modellano i mattoni con le mani, e poi li trasportano sulla schiena fino ai forni. La polvere e il fumo che respirano dimezza la loro prospettiva di vita. Lungo i margini della strada gruppi di vecchie e bambine camminano nella polvere, curve sotto il peso delle fascine. Si alzano all'alba per procurarsi la legna, l'unico combustibile, perché al campo non c'è gas.

Il nucleo originario del campo, l' Old Jalozai Camp, è stato costruito nel 1980 per accogliere i primi profughi fuggiti dalla guerra contro l'occupazione sovietica. Vi risiedono, attualmente, circa 3000 famiglie. E' un settore in cui RAWA ha una certa libertà di azione, partecipa alla amministrazione del campo e vi gestisce varie attività: la scuola primaria, i corsi di alfabetizzazione per le donne, un pronto soccorso, due orfanatrofi.

Il campo si apre nella desolazione del paesaggio come un'oasi. La pulizia e l'ordine contrastano con il degrado dei quartieri di Peshawar che ospitano le comunità dei profughi afghani. Qui i passaggi tra le capanne di fango sono puliti e ombreggiati. Le abitazioni sono cinte da muretti, e all'interno ci sono piccoli orti, capre, galline. Molte case hanno all'interno un telaio, fornito da RAWA, dove le donne tessono tappeti che poi vengono venduti nel bazar del campo. Le due scuole, che sorgono in una piazzetta che funge anche da teatro, funzionano a tempo pieno: la mattina ospitano 900 bambini che frequentano la scuola elementare; il pomeriggio le circa 100 donne che ricevono i corsi di alfabetizzazione. Le insegnanti di RAWA girano per il campo con in mano le loro cartelle con scritto "teacher". Gli orfanatrofi, dove vivono circa 40 ragazze dai 6 ai 18 anni (e un solo bambino di 5 anni), sono poveri ma accoglienti. Dopo la scuola le bambine sono seguite nello studio e hanno ogni giorno lezione di karatè. Al centro del campo, su uno spiazzo terroso c'è una piccola altalena e qualche gioco. Rawa è riuscita a trasformare un campo profughi in un villaggio.

Le attiviste di RAWA conoscono le famiglie una per una, le seguono, intervengono dove è possibile, spesso usando la autorità che conferisce loro la disponibilità di risorse economiche: offrono un telaio alle donne che accettano di frequentare i corsi di alfabetizzazione; del riso alle famiglie che mandano le figlie a scuola; un lavoro al marito che promette di non picchiare più sua moglie o di disintossicarsi dall'oppio. È un lavoro puntuale, paziente, continuo. Dove non hanno successo, tornano alla carica dopo qualche tempo.

Non è facile convincere le famiglie a mandare a scuola i bambini, ma soprattutto le bambine. Alla povertà si sommano i pregiudizi culturali, che non permettono che le ragazze escano di casa e frequentino situazioni pubbliche. La via per il reclutamento delle bambine passa frequentemente per il rapporto con le madri che seguono i corsi di alfabetizzazione, dove le insegnati, oltre a insegnare a leggere e scrivere e impartire nozioni elementari di calcolo e di matematica, parlano con le donne dei diritti, della contraccezione, della violenza domestica, dell'avvenire delle loro figlie.

La forza di RAWA sta nel fatto che l'attività umanitaria e sociale è sempre intrecciata con la attività politica. L' aiuto è sempre accompagnato da un tentativo di cambiamento delle coscienze e delle abitudini di vita. E le idee politiche hanno la concretezza e la consapevolezza che viene solo dal lavoro con la gente.

I bambini delle scuole vengono educati al rispetto delle differenze religiose, etniche, sessuali; la premura per gli anziani, i deboli, i portatori di handicap; la cura per l'ambiente; l'amore per la vita, la felicità e la libertà; la difesa dei diritti individuali, il rifiuto della violenza[2].

Negli istituti che accolgono le ragazze che vengono affidate a RAWA, il programma è intenso: vengono impartite lezioni di lingua (dove si impara a leggere, a pensare e a scrivere), di matematica, di storia (con una attenzione particolare alla storia del fascismo e del nazzismo), e di inglese "per poter raccontare cosa sta succedendo in Afghanistan"; nell'ambito dell'insegnamento della biologia, si affrontano con chiarezza i temi della educazione sessuale, del piacere, della contraccezione. Ogni giorno le allieve ascoltano le notizie della BBC , e prendono appunti. Vengono stimolate a ragionare autonomamente e a esporre -nella "sessione delle lamentele" - critiche e osservazioni[3].

Molte ragazze decidono di restare nella organizzazione, e vengono a poco a poco coinvolte nelle sue attività. Devono allora prepararsi a una esistenza semiclandestina, a usare un nome falso, a rinunciare a una professione remunerativa, a subordinare la sfera privata a quella politica o a una "doppia militanza " che a volte ha costi altissimi per la vita affettiva e familiare. Prima di sposarsi, Arean Mateen, la responsabile di tutte le attività RAWA a Peshawar, ha presentato l'elenco delle condizioni: spesso dormirò fuori di casa, posso essere chiamata in qualsiasi momento, la attività con RAWA ha la priorità assoluta …Il marito di Arean è diventato un convinto sostenitore di RAWA, ma sono condizioni che pochi uomini al mondo saprebbero accettare e soprattutto sostenere nel tempo.

Le donne di RAWA sono unite da un patto di militanza che non viene reciso neanche quando abbandonano l'organizzazione: rimarranno comunque legate a essa dal vincolo del segreto. Ognuna di loro ha responsabilità precise e definite, ma ognuna ruota su più compiti. Abbiamo visto donne autorevoli fare i lavori più umili, e donne con l'aria dimessa dirimere con autorità le situazioni più complesse e controverse. Non credono nella gerarchia, non c'è una leader, e gli incarichi vengono distribuiti tra le aderenti, così che tutte condividono la responsabilità politica, organizzativa e di gestione, e il lavoro di base.

Ci chiediamo come facciano a reggere ritmi di lavoro massacranti, e come possano mantenere alto il morale in una situazione così disperatamente ristagnante. "Ci sono molte ragioni per essere forti. Le circostanze ti rendono forte -risponde Sahar Saba - quando la gente ti vede come una speranza, e le donne ti vedono come una speranza, se perdi tu la speranza, cosa faranno loro?"

UN COLTELLO NEL CUORE DEL FONDAMENTALISMO [4]

La "R" di RAWA sta per "rivoluzionaria". Sarebbe più facile ottenere finanziamenti con una sigla meno "estrema", e più volte le organizzazioni che le sostengono hanno insistito perché la cambiassero. Ma le donne di RAWA si sono sempre rifiutate: "in quanto organizzazione di donne che combatte contro i fondamentalismi in una societa' medievale dominata dagli uomini, noi stiamo facendo un lavoro autenticamente rivoluzionario" , risponde Maryam Rawi [5]. E se, come ripetono, "l'arma della rivoluzione è l'educazione", le parole contano più dei soldi.

In Afghanistan le attività di RAWA sono ancora oggi clandestine, molte attiviste sono state uccise, imprigionate, torturate, violentate. E anche in Pakistan sono esposte ad attacchi , aggressioni, ingiurie di ogni tipo. Le chiamano atee (ma "la difesa della laicità non è la negazione della religione -sottolinea Mahmooda- bensì solo del suo uso politico"); infedeli; nemiche dell'Islam, vendute all'Occidente.

Purtroppo l'argomento della fedeltà alla tradizione trova stonate risonanze nel relativismo culturale dilagante in occidente, che invoca il rispetto delle "culture" anche a costo di legittimare pratiche atroci. Le risposte delle donne di RAWA su questo argomento sono drastiche.

La "cultura", semplicemente, non è un argomento. "Non possiamo rispettare una cultura così retrograda e oppressiva. Se in Afghanistan la tradizione è comprare o vendere le bambine, dovremmo rispettarla solo perché è la nostra tradizione? Ebbene, non è una buona tradizione!" [6]

Prima della salita al potere dei Mujaeddin, le donne in Afghanistan avevano dei diritti. Alcune ricoprivano cariche di governo, e oltre il 70% delle insegnanti, il 40% dei medici, il 50% degli studenti universitari erano donne. Chi decide allora cos'è cultura e cos'è tradizione? Che "la cultura" del popolo afghano è quella di chi impone il burqa, la clausura o la lapidazione, e non quella di chi combatte contro tutto ciò?

"Ci accusano di essere vendute all'Occidente - protesta Mahmooda - Ma i valori laici e democratici che proclamiamo sono universali. Gli ideali di liberazione non possono essere classificati come 'occidentali' o 'orientali'. Nessuno dei grandi pensatori occidentali che hanno fatto epoca ha mai presentato i propri valori come qualcosa che apparteneva al "proprio continente" [7].

"Libertà, Democrazia, Giustizia sociale"[8]. Le consegne delle donne di RAWA strappano sorrisi increduli tra gli analisti politici. Sembrano obiettivi impossibili, utopici, fuori dalla realtà. Per le donne di RAWA sono l'unico possibile, realistico scenario contro il fanatismo dei propugnatori dello Stato Teocratico. "La democrazia è semplicemente un bisogno basico, come l'acqua, il cibo, l'aria fresca" [9]. E' un realismo politico che richiama quello che campeggiava, anni fa, sui muri delle case del Chapas: "siamo realisti: chiediamo l'impossibile". La posizione di chi sa che solo un cambiamento radicale può sconfiggere la logica perversa di un sistema che si alimenta del fanatismo: " Tutte le libertà sono state infrante con il pretesto delle ingiunzioni religiose. Secondo noi, soltanto in democrazia le credenze religiose della gente conservano il loro originario valore spirituale, e non sono cinicamente strumentalizzate per ulteriori fini politici, e i diritti umani, compresa la libertà di credo religioso, possono essere garantiti e salvaguardati [10].

Per molti, in occidente, il realismo vuole invece che si tratti con i vari "signori della guerra" perché "sono già lì". "Con questo argomento -ricorda Sahar- gli USA pretendevano di farci accettare le loro negoziazioni con i Talebani mentre erano ancora al potere (…) E ora pretendono di farci accettare il potere dell'Alleanza del Nord . Ma come è possibile pensare che la soluzione per l'Afghanistan sia rimpiazzare un manipolo di criminali con un altro? L'unica differenza tra la Alleanza del Nord e i Talebani è la lunghezza della barba. La mentalità è la stessa!" [11]

Fedeli alla "strategia di Frankenstein" che sembra ispirare la loro politica in Afghanistan e in tutto il mondo, [12], gli USA hanno invece premiato il vecchio alleato, che avevano armato contro i Sovietici e usato occasionalmente in altri conflitti, come in Kossovo o in Cecenia. Il governo ad interim presideuto da Karzai, come suo primo atto politico ha dichiarato la sharia legge di stato, e ha affidato i ministeri chiave a noti criminali di guerra [13].

I crimini dei Jehadi (i guerrieri della Jihad) dell'Alleanza del Nord sono tristemente noti a tutti gli afghani. Molti, che avevano resistito ai Talebani e alle bombe, stanno lasciando il paese, memori delle violenze perpetrate nei 4 anni di guerra civile che seguirono la cacciata dei Sovietici, dal 92 al 96, quando l'Alleanza del Nord controllava Kabul e aveva proclamato la nascita dello Stato Islamico dell'Afghanistan. Pulizie etniche, rapine, saccheggi, stupri, distruzioni, reclutamento forzato di bambini . Si calcola che i morti, in quei 4 anni, siano stati più di 50000. E furono i mujaheddin allora al governo che imposero, prima dei Talebani, le norme e le pratiche allucinanti contro le donne che hanno reso tristemente noto l'Afghanistan in tutto il mondo. Fatti noti, documentati dai rapporti di organismi internazionali, come Amnesty International e lo Human Right Watch [14], che oggi allertano l'opinione pubblica internazionale sul rischio di una nuova guerra civile in un Afghanistan conteso dalle bande dei vari signori della guerra [15]. Le notizie delle violenze sulla popolazione si susseguono in una agghiacciante litania: solo Kabul è sotto il fragile controllo delle truppe internazionali.

Finchè queste bande criminali non verranno completamente disarmate, denunciano le RAWA, anche gli aiuti umanitari servono solo ad alimentare le loro casse. Intanto la popolazione civile aspetta ancora, e si moltiplicano i casi di bambini e bambine venduti dalle famiglie disperate per un sacco di farina targato ONU o Croce Rossa [16]

Gli attentati dell'11 settembre hanno gettato RAWA nell'occhio del ciclone. Dagli USA hanno cominciato a piovere mail di insulti e minacce: "Un giorno, presto, si dirà: 'sai, in Afghanistan c'erano le montagne' ". Oppure: "Andatevene dalla vostra stupida terra finchè siete in tempo, noi stiamo per lanciarci una bomba nucleare." O ancora: " Massa di straccione, piantatela di coprirvi la testa con quel cazzo di velo, imparate a vivere nel mondo reale!" [17].

Loro hanno risposto, con un messaggio chiaro e senza compromessi:

L'11 settembre 2001 il mondo è rimasto scioccato dagli orribili attacchi terroristici agli Stati Uniti.

RAWA esprime con il resto del mondo il proprio dolore e la condanna di questo atto barbarico di violenza e terrore. RAWA aveva già avvertito che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto sostenere i più infidi, i più criminali, i più antidemocratici e misogini partiti fondamentalisti islamici, perché dopo che i Jehadi (l'Alleanza del Nord di Massud, ndr.) e i Talebani avevano commesso ogni possibile sorta di orrendi crimini contro la nostra gente, essi non avrebbero provato alcuna vergogna nel commettere tali crimini contro il popolo americano che considerano "infedele". …Ma sfortunatamente noi dobbiamo dire che è stato il governo degli Stati Uniti a sostenere il dittatore pakistano gen. Zia-ul Haq nel creare migliaia di scuole religiose dalle quali sono emersi i germi dei Talebani. Allo stesso modo, come è evidente per tutti, Osama Bin Laden è stato il pupillo della CIA. Ma ciò che è più penoso è che i politici americani non hanno tratto una lezione dalle loro politiche a favore dei fondamentalisti nel nostro paese e stanno ancora continuando ad appoggiare questo o quel gruppo o leader fondamentalista. Secondo noi, ogni tipo di sostegno ai fondamentalisti Talebani e Jehadies significa in realtà calpestare i valori democratici, i diritti delle donne e i diritti umani (RAWA. Comunicato del 14 settembre 2001) [18]

Vezzeggiate e corteggiate dalla stampa di tutto il mondo nelle prime settimane di guerra, ricevute, consultate e citate dalle Nazioni Unite, le donne di RAWA rischiano ora di ripiombare nella solitudine, soprattutto dopo la durissima posizione espressa sugli accordi di Bonn (vedi comunicato al lato) [19].

Ma Rawa è "un osso duro", e il 5 marzo 2002 ha firmato un protocollo di intesa con il Governo Basco per far pressione sulla comunità internazionale affinchè venga istituito un Tribunale Internazionale che giudichi i crimini contro l'umanità perpetrati dai vari signori della guerra in Afghanistan: "Perché crediamo fermamente che l'emancipazione delle donne dal fondamentalismo e da qualsiasi altra oppressione sia responsabilità delle donne stesse" [20]

L'8 MARZO CON RAWA

8 marzo 2002. Ci ritroviamo in una grande sala stile Casa del Popolo anni 50, che le donne di RAWA hanno addobbato con i loro striscioni. Slogan chiari, risoluti:

"Lotta contro i fondamentalisti e i loro maestri di ogni colore e sfumatura"

"Non esiste democrazia senza laicità"

"Le donne e gli uomini rispettabili dell'Afghanistan non accetteranno che i despoti religiosi o non religiosi governino ancora l'Afghaistan".

Sul palco, l'immagine di una donna che si libera dalle catene, in un gesto potentissimo di forza, fisicità, libertà.

Nella sala ci sono oltre 2500 persone. Le donne sono venute dalle città pakistane, dai campi profughi, molte anche dall'Afghanistan, grazie allo sforzo organizzativo della associazione. Sono attiviste, allieve dei corsi di alfabetizzazione, madri dei bambini delle scuole, simpatizzanti. Molte sono a testa scoperta. Siedono con i bambini in braccio, a gruppi di due o tre nella stessa sedia, i posti sono tutti occupati. I bambini, con i vestiti buoni, corrono per la sala in attesa dell'inizio della cerimonia. Riconosciamo molti dei bambini del campo, degli orfanatrofi , delle scuole che abbiamo visitato a Peshawar. Sono tutti indaffarati, ognuno di loro ha un compito importantissimo da svolgere perché tutto funzioni a perfezione.

Gli uomini, numerosi, siedono, un po' decentrati, sulla sinistra, in rispettoso silenzio. RAWA è una associazione di donne, di cui gli uomini non possono entrare a far parte. Ma a centinaia hanno dato la loro disponibilità come sostenitori, e lavorano a tempo pieno per l'organizzazione. Ne abbiamo incontrati tanti in questi giorni a Peshawar: medici, istruttori di karatè, maestri, informatici, traduttori e moltissime guardie del corpo, che sorvegliano costantemente le scuole, gli orfanatrofi, le riunioni, e accompagnano ogni donna di RAWA nei suoi spostamenti.

La cerimonia sta per cominciare, la musica attacca di sottofondo. Quando arriva il ritornello -"vedrai che cade, cade, cade", la riconosco. E' la canzone che Luis Llac , il famoso cantautore catalano, ha scritto qualche mese prima della morte di Franco. Le ragazze di RAWA hanno tradotto la canzone e la hanno adattata alla propria storia. In Spagna ci sono centinaia di organizzazioni attivissime che supportano RAWA, ne abbiamo visto le tracce ovunque. E questa solidarietà ha prodotto anche una possibilità di comunicazione tra due popoli che hanno sofferto la tirannia.

La serata prosegue vivace. Gli interventi si alternano con le poesie che sempre costellano i discorsi politici di RAWA e le poesie cedono presto il palco alle canzoni. C'è grande emozione quando entra in scena Sorbon, figlio d'arte del grande cantante afghano ucciso dai fondamentalisti, acclamatissimo. Ma per me le vibrazioni più intense sono quelle delle voci dei bambini che cantano, con gli occhi pieni di dolore e di ricordi, "Ahi an watan", popolo mio…

C'è anche il teatro preparato dai ragazzi e dalle ragazze del campo. La storia si segue bene anche se non si capiscono i dialoghi: il talebano, ripulito, con la barba tagliata, la cravatta che lo strangola, torna ad occupare la vecchia poltrona, con il beneplacito del grasso e sudaticcio commissario dell' ONU e dell'arrogante soldato americano, che mastica il chewing gum dietro i ray-ban. Ma viene smascherato da una giovane giornalista, attivista dei diritti umani, che lo arringa con un fiume di accuse costringendolo a scappare, pieno di vergogna, con la coda tra le gambe. La gente ride molto, applaude, fischia, in una sorta di catarsi collettiva. Qui nessuno è convinto che i Talebani siano un pericolo scongiurato…

Le attiviste di RAWA si alternano al microfono. Parlano con voci chiare e decise, che si propagano per tutta la sala e catturano l'auditorio. Non si sente volare una mosca.

Il loro messaggio è nitido e vibrante.

"Le nostre donne soffrono, vivono avvolte dai burqa e sotto i colpi degli uomini, che non le considerano come esseri umani ma come oggetti. In uno degli ospedali del paese, 30 donne si sono immolate dandosi fuoco, in preda alla disperazione. Ma il loro atto non ha riscosso alcuna solidarietà, non una lagrima è stata versata per il loro sacrificio". La celebrazione dell'8 marzo si apre con la costatazione che la situazione delle donne afghane non è migliorata, e che la presenza strumentale di due donne ministro nel governo non è indicativa della loro liberazione. Il paese è ancora retto dalla legge islamica che risale al 7° secolo. La commissione promessa da Karzai per riscrivere il sistema penale e restaurare i diritti umani deve ancora essere nominata. Le galere sono piene di giovani donne incarcerate per essere scappate dalla casa coniugale, visto che i matrimoni forzati sono all'ordine del giorno. Sotto i Talebani, per lo stesso crimine, venivano lapidate. Ora invece vengono rinchiuse per 5 mesi in celle opprimenti e strapiene, a pane e acqua: sharia versione "light" [21]. Molte donne sono tuttora costrette a mendicare e a prostituirsi. Le denunce di stupri e violenze perpetrati dalle milizie dei vari generali si moltiplicano [22], e migliaia sono quelle che ancora tacciono per paura o per vergogna. Intanto i giornali informano che la vendita dei burqa è salita alle stelle [13] . Le donne possono ora uscire senza la sorveglianza di un parente maschio, ma hanno paura, e il burqa è un fragile scudo contro le minacce, le aggressioni, gli stupri.

Se è vero che l'oppressione che le donne soffrono in Afghanistan "non ha eguali nel mondo", le donne di RAWA non dimenticano che in ogni angolo del pianeta le donne sono ancora "incatenate": "in Iran le ragazze di 14 anni sono state prima violentate e poi uccise dalla Polizia Religiosa. In Palestina ogni giorno le donne sono testimoni dei massacri dei loro bambini per mano dell'esercito israeliano. Nelle prigioni della Turchia le torture più brutali sono esercitate sui corpi delle donne. Le donne del Kashmir sopportano il peso della lotta per la liberazione del loro paese. In Pakistan ogni giorno le donne si immolano dandosi fuoco. L'Europa dell'est è diventata uno dei più grandi mercati del sesso delle donne". E' una evocazione sintetica ma potente, che stabilisce un vincolo di solidarietà, di empatia. Di lotta comune.

Ma quale solidarietà c'è intorno a RAWA? Tra gli interventi dei sostenitori e dei simpatizzanti pakistani, come Afzal Khamoosh, leader del Comunist Worker's and Farmer's Party of Pakistan, o Naim Safros, attivista dei diritti umani, l'assenza delle femministe pakistane salta all'occhio. I contatti ci sono, ma troppo spesso rimangono a livello di dichiarazioni.

A motivo della presenza della nostra delegazione , questo è per RAWA "il primo 8 marzo internazionale". C'è un brivido che corre in sala quando Salima ci nomina tutte, una per una, ringraziandoci, e una vera e propria ovazione accoglie le parole di saluto e solidarietà di Cristina Cattafesta, delle Donne in Nero. A dispetto di tutta la retorica che si è spesa intorno al "fiore per Kabul", mai nessuna donna occidentale si era mossa in tutti questi anni per celebrare la Giornata della Donna con le donne afghane

Festeggiare l'8 marzo con RAWA non è stato solo un atto di solidarietà, ma un gesto politico. Alle loro posizioni ci unisce infatti un vincolo forte: la convinzione che la difesa della libertà delle donne passa per la lotta ai fondamentalismi "di ogni colore e sfumatura" . Sappiamo che la violenza sulle donne, la negazione dei loro diritti e della loro libertà di scelta, la soppressione della loro autonomia fisica, rappresenta un nodo che accomuna tutti i fondamentalismi, e che spesso li vede costruire pericolose alleanze.

Da anni i messaggi di RAWA ammoniscono le donne di tutto il mondo sul pericolo sempre più tangibile del dilagare del fondamentalismo ben oltre il regime "medioevale" dei Talebani. Lo scenario che si è andato delineando dà loro ragione, e smentisce ogni analisi su presunti "scontri di civiltà". Nelle aree più diverse del pianeta la religione viene oggi invocata a sostegno dei disegni politici di un autoritarismo oscurantista in aggressiva espansione. Il problema, dunque, non è solo nel mondo islamico, sempre più percorso da venti di fanatismo e da lugubri inni al martirio, e dove anche molti dei paesi cosiddetti "moderati" o "amici dell'occidente" praticano, con la compiacenza degli alleati , politiche liberticide e gravemente lesive dei diritti umani.

Anche negli Usa, la potenza economica e militare che oggi decide le sorti del mondo, l' escalation delle correnti fondamentaliste e integraliste cristiane è un fenomeno estremamente inquietante. Gli americani che si autodefiniscono fondamentalisti sono circa il 25% della popolazione, e formano un blocco politico ben strutturato. I gruppi fondamentalisti religiosi sostenuti dalla destra ultra conservatrice al governo, costituiscono veri e propri imperi economici dotati di potentissimi mezzi di comunicazione e diffusione [14]. Dagli anni '70, i fondamentalisti hanno intrapreso attive politiche legislative ed elettorali contro quello che essi consideravano 'minacce ai valori religiosi' : e, cioé, il cosiddetto 'umanesimo, il comunismo, il femminismo, l'aborto legalizzato, l'omosessualità , l'insegnamento della teoria dell'evoluzione nelle scuole. Alcune frange sono pronte a ricorrere all'arma del terrore , come l' "Army of God" (l'Esercito di Dio) , un gruppo implicato nella sanguinosa campagna antiabortista che ha prodotto solo negli anni 90 centinaia di vittime e danni per vari milioni di dollari [25].

In Israele, la deriva integralista dello stato sotto il ricatto dei gruppi ultraortodossi, che oggi mostra la sua faccia guerrafondaia, colonialista e violenta, da tempo produce aberrazioni nel campo della cultura, della istruzione, dei diritti, delle libertà, tanto da provocare una vera e propria "controdiaspora" tra gli israeliani laici che a migliaia hanno abbandonato il paese. Matrimonio, divorzio, tutela dei figli, sono questioni affidate ai tribunali religiosi, e tra le ebree sono molte le agunot, le donne "incatenate" al matrimonio ortodosso che solo il marito ha il diritto di sciogliere [26].

Nelle Nazioni Unite, il Vaticano e alcuni dei paesi islamici e cattolici più conservatori hanno lanciato una crociata virulenta contro le politiche di controllo delle nascite, bollate come l'espressione dell' "imperialismo contraccettivo dei paesi ricchi" [27]. George Bush ha appoggiato la crociata con la legge Mordaza, che proibisce che gli stanziamenti governativi destinati alla cooperazione internazionale vengano indirizzati ai programmi di salute riproduttiva che affrontano la questione dell'aborto anche solo a titolo informativo.

In Italia, lo scempio dello stato di diritto porta anche la firma dell'integralismo cattolico , che aggredisce l' istruzione pubblica, le istituzioni laiche, i diritti individuali, e in modo particolarmente accanito, il diritto di autodeterminazione delle donne. [28]

Le sorti delle donne afghane, che per 20 anni hanno sofferto l'oppressione del fondamentalismo nella rassegnazione della comunità internazionale, dopo l'11 settembre sono improvvisamente state illuminate dai riflettori della opinione pubblica. Un coro di voci indignate ha invocato la loro liberazione a sostegno della guerra degli USA e dei loro alleati. A distanza di sette mesi, quella guerra che si voleva chirurgica non è ancora chiusa, e il bilancio dei suoi effetti è agghiacciante: decine di migliaia di morti, di profughi, di mendicanti; un paese devastato, costellato di macerie e di mine, abbandonato a se stesso; i profitti delle multinazionali delle armi e del petrolio, dei mercanti di organi e di schiavi, delle mafie della droga e del terrore. Delle donne non si parla più. Dopo che le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato le immagini fittizie delle donne a testa scoperta il giorno della "liberazione" di Kabul, le coscienze debbono stare tranquille. Nuovi e vecchi scenari di conflitto sollecitano la attenzione del mondo, e la sorte dell'Afghanistan e della sua gente è già, per molti, acqua passata.

Ma l'Afghanistan è il cuore di un conflitto planetario che ci coinvolge tutti. Coerenti con i propri principi, le donne di RAWA perseverano nel loro lavoro di documentazione e di denuncia delle responsabilità della comunità internazionale nell'aver finanziato, legittimato e appoggiato i regimi fondamentalisti e nell'aver ignorato e delegittimato ogni movimento di opposizione democratica.. La loro è una voce marginale nel coro dei difensori della "libertà duratura". Ma è una voce potente, che ha la forza della chiarezza e della verità.

WWW.RAWA.ORG

Il viaggio che ci porta a conoscere RAWA possiamo anche intraprenderlo dalle nostre case, seduti alle nostra scrivanie, davanti al nostro computer. Basta collegarsi al loro sito ( www.rawa.org. ).

Come ogni viaggio, anche questo viaggio virtuale produce uno spiazzamento. Giornali , televisioni, reportaggi ci avevano detto che l'Afghanistan è un paese ripiombato nell'età della pietra, dove gli esseri umani vivono nelle caverne, [29]; che è popolato solo da fanatici, analfabeti, barbari; che la gente è dispersa nei campi profughi, dimenticate terre di nessuno dove non cresce nessun sogno, nessun progetto, e la vita non è che il susseguirsi senza fine dei giorni tutti uguali; che le donne sono fantasmi vaganti sotto la cappa dei burqa, animali spaventati, schiave ignare del resto del mondo.

Eppure da questo mondo fuori dal mondo arriva un segnale. Un sito prodotto e gestito dalle donne afghane sfrutta in pieno le potenzialità della tecnologia informatica, offre immagini, video, musica e una quantità enorme e aggiornatissima di informazioni: rapporti, rassegne stampa, pubblicazioni, news. Documenti raccolti per anni con meticolosità e precisione, e diffusi regolarmente, quasi ogni giorno, attraverso una puntualissima news letter inviata a migliaia di indirizzi in tutto il mondo.

Un lavoro certosino. Il sito RAWA è forse la testimonianza più bella e più eloquente dell'intelligenza testarda di queste donne che, anche dopo 20 anni di oppressione e di esilio, non hanno rinunciato a lottare per essere ascoltate, viste, comprese.

La prima cosa che colpisce, quando iniziamo a navigarlo, è la attenzione allo sguardo di chi legge, la capacità di non dare nulla per scontato, e la quantità di strumenti che vengono offerti per decodificare e comprendere quello che si legge: glossari, rimandi interni tra i testi, links, mappe, traduzioni.

Per molte donne e molti uomini di tutti i paesi, questo sito è stato nel corso degli anni e soprattutto negli ultimi mesi di guerra, uno strumento insostituibile di informazione. Le donne di RAWA hanno informato sulla situazione in Afghanistan e sul pericolo incombente della diffusione del modello afghano in altre realtà (in Algeria i "guerrieri di Dio" che tornavano dai campi di addestramento di Al Qeida con il proposito di "kabulizzare Algeri" venivano chiamati appunto, gli "afghani").

La realtà più reale, più nuda, più brutale rompe lo spazio virtuale per penetrare nelle nostre case. Le donne di RAWA si sono dotate di cineprese e macchine fotografiche, e hanno documentato le atrocità, le sofferenze, le assurdità del regime talebano e della guerra.

Sullo schermo compaiono le immagini delle donne lapidate, fucilate, frustate, dei bambini malati, abbandonati e disperati, delle esecuzioni sommarie, degli impiccati lasciati come monito nella pubblica piazza, dei mutilati, dei mendicanti, dei barbuti armati di fucili e fruste che viaggiano su grandi macchinoni, delle scuole e gli edifici pubblici ridotti in macerie. Scorrono i racconti delle vite della gente. Le donne che vivono nel terrore, ma ancor più nel dolore e nell'umiliazione per i maltrattamenti e gli insulti che penetra nell'anima e si incolla come una pece di nero avvilimento. La vita che scorre grigia nella ricerca disperata dei generi di prima necessità. Le migliaia di vedove disperate, costrette a sfidare la frusta dei talebani per andare a mendicare o a prostituirsi. I laureati e i professionisti cacciati dai posti di lavoro, ridotti ai mestieri più umili o a chiedere la carità. I bambini cresciuti per le strade nella familiarità con la morte e la violenza più brutale, senza scuole, senza giochi. Le esecuzioni di massa, le estorsioni, i bombardamenti, le rapine, gli stupri. La polvere della guerra e della distruzione che offusca i bei tramonti di Kabul.

Una scritta lampeggiante nella home page ci avverte del contenuto del sito: " ATTENZIONE: RAWA ha l'impegno di presentare fedelmente la realta' della vita sotto le leggi dei fondamentalisti. Questo sito web contiene foto e links a immagini video che alcuni visitatori possono trovare estremamente inquietanti. Avvertiamo i visitatori che non tollerano scene violente di fare attenzione nel guardare le nostre foto e i nostri video. Siamo spiacenti di dover di pubblicare simili materiali. Questa e' la realta' della vita della gente in Afghanistan". Poche parole nette, in cui, dietro il pudore per il dolore, la barbarie, la violenza, traspare la fierezza di chi non rinuncia a dire la verità.

Nell'ultima tappa del nostro viaggio, a Islamabad, ho intervistato Mahmooda, una delle portavoci di RAWA e delle responsabili del sito web. Insieme ad altre tre attiviste e con l'aiuto di supporters che si occupano delle traduzioni, Mahmooda ha il compito di rispondere alle mail e diffondere la newsletter di RAWA. Ci racconta dell'entusiasmo delle attiviste quando da un giornale pakistano hanno saputo dell'esistenza di Internet. Ma i soldi della associazione erano troppo pochi, e i mille bisogni cui deve sopperire troppo impellenti per potersi permettere di pagare un corso di informatica per le socie: ce ne sono di ottimi in Pakistan, ma sono carissimi. Le donne di RAWA hanno fatto tutto da sole: hanno imparato velocemente, con l'aiuto dei supporters . Mahmooda ricorda la prima sera che hanno aperto il sito, riuscendo appena a scannerizzare una foto di Meena - la leader assassinata che è ancora per le donne diRAWA un riferimento fondamentale- e a metterla in rete. Era il 1995, ma è ancora viva l'emozione di quella immagine che viaggiava e poteva essere vista in tutto il mondo.

A poco a poco il sito si è arricchito, e sono cominciate ad arrivare le prime mail delle donne occidentali, entusiaste, quasi elettrizzate della scoperta. L'isolamento era rotto.

La vita di RAWA è cambiata radicalmente dopo la messa in funzione del sito. Molte organizzazioni di donne si sono interessate all'Afghanistan e al lavoro della associazione. Sono arrivati i primi inviti per le donne di Rawa che hanno iniziato a viaggiare e a raccontare. Sono nati rapporti, progetti, sono arrivati i finanziamenti, e piano piano attorno a RAWA si è intessuta una rete di supporters che abbraccia tutti i continenti.

Nel 1999 l' ospedale di Quetta che ospitava 400 malati è stato chiuso per problemi finanziari. Ma è bastato mettere delle foto nel sito e raccontare del problema, e quasi immediatamente una rete di supporters, soprattutto dagli USA si è mobilitata. La gente ha lavorato duro per raccogliere i soldi necessari, e dopo due anni l'ospedale è stato riaperto.

Prima di salutarci, ho raccontato a Mahmooda della nostra visita alla "Mulana Jami-Zaraghona Hight School": un tempo una prestigiosa scuola superiore di Kabul, che per iniziativa degli stessi insegnanti è stata riaperta a Peshawar, e grazie al sostegno di RAWA si è dotata di una piccola biblioteca, di un laboratorio e di libri di testo "decontaminati" dalle paranoiche visioni dei Talebani.

I ragazzi ci avevano ricevuto volentieri, ma avevano chiesto che spiegassimo il motivo della nostra visita. Avevo raccontato di quanto desiderassimo incontrare le donne di RAWA, con cui per anni avevamo condiviso, attraverso i canali virtuali, emozioni, dolori, progetti, rabbie, ideali; e di come il web fosse uno strumento preziosissimo di informazione e di comunicazione. I ragazzi erano vogliosi di conoscere, di comunicare, chiedevano che ci scambiassimo subito i nostri indirizzi mail. Non abbiamo potuto farlo. Le scuole di RAWA sono ancora in pericolo, e non era prudente iniziare una corrispondenza senza il controllo dei direttori, che non sanno usare il computer.

Con Mahmooda abbiamo fantasticato di un progetto che metta in comunicazione elettronica i ragazzi e le ragazze della "Mulana Jami-Zaraghona Hight School" e quelli italiani. E anche di un futuro felice in cui i ragazzi delle scuole italiane e quelle di RAWA possano scambiarsi delle visite…La strada è lunga. Ma è questo il cammino che bisogna percorrere: "insegnare l'uso del computer e stabilire connessioni internet per la nostra gente e soprattutto per i giovani è uno degli obiettivi più importanti in questo momento.. Non è facile perché la maggior parte della gente in Afghanistan ignora persino l'esistenza di queste tecnologie. Il nostro obiettivo è quello di portarle dappertutto, anche nei villaggi più sperduti. Perché sappiamo che il fondamentalismo non si combatte con le bombe, uccidendo o arrestando questo o quel leader. Si combatte con le idee, con l'informazione, con la conoscenza. La vera democrazia è l'accesso per tutti alla conoscenza".

Le Tavernuzze, maggio 2002



Footnotes:

1- The Guardian, 13 marzo 2001

2- Policy Of Teaching In Rawa Schools in www.rawa.org. . Traduzione italiana : La scuola di RAWA, in www.wforw.it

3- Zoia, la mia storia, a cura di John Follain e Rita Cristofari, Sperling & Kupfer, Milano 2002.

4- "Le donne sono state le prime vittime dei Talebani e dei Jehadi. E' loro compito essere un coltello nel cuore del fondamentalismo". Uno slogan di RAWA

5- Sowing the seeds of revolution , The Japan Times, 18 dicembre 2001

6- Left Behind, Kristie Reilly intervista Sahar Saba, In These Times, 29 marzo 2002

7- Rawa: a hard nut to crack, intervista a Mahmooda, The News, 10 marzo 2002

8- Rawa slogans. In www.rawa.org. Traduzione Italiana Gli Slogan di RAWA, in www.wforw.it.

9- Left Behind, op cit.

10- Rawa slogans, op. cit.

11- Left Behind, Kristie Reilly intervista Sahar Saba, In These Times, 29 marzo 2002

12- Toni Maraini, ….., Il Manifesto …..

13- Haji Muhammed Muhaqqiq, Ministro della Pianificazione, è uno dei leader del Hezb-i Wahdat (Partito Islamico di Unità) le cui forze armate furono accusate dalla Croce Rossa Internazionale di violenze contro donne e adolescenti, esecuzioni di massa, torture e sequestri. Yunus Qanuni, Ministro degli Interni, difende la pena di morte dettata dalla sharia, e nel 1992 dichiarò che le esecuzioni pubbliche servono come per stabilire l'ordine e la pace. Abdullah Abdullah e Mohammad Fahim, rispettivamente Ministro degli Affari Esteri e della Difesa, ricoprivano gli stessi incarichi nel governo dei moujaidin che ordinò alle donne di coprirsi con i burqa nel 1992, proibirono le trasmissioni radiofoniche musicali e licenziarono le donne che lavoravano nella Televisione Nazionale. En la Mira. Bollettino di Isis International n.6 novembre-dicembre 2001

14- . Women in Afghanistan: a human rights catastrophe, Amnesty International report, London 1995; Rawa, Marginalised Women. Documentation on refugees Women and Women in Situation of Armed Conflict, Asian Pacific Developement Center 2000

15- Cfr: Backgrounder of United Front/Northern Aliance , Human Right Watch, Ottobre 2001; Afghanistan, Human Right Watch, Marzo 2002.

16- Disgrace to humanity. Afghan girls on sale for 100 kg wheat. The news International, 10 febbraio 2002

17- Zoia, la mia storia, op. cit. p. 189

18- In www.rawa.org

19- Un recente articolo apparso su Ms Magazine firmato della lobby femminista statunitense Feminist Majority (A Coalition of hope, spring 2002) ricostruisce la storia della resistenza delle donne afghane al regime dei Talebani senza nominare affatto RAWA, nonostante i numerosi rapporti politici che in passatohanno legato le due organizzazioni. Significativamente, un silenzio parallelo occulta i crimini della Alleanza del Nord.

20- Rawa: a hard nut to crack, intervista a Mahmooda, op. cit.

21- Afghan laws still repress women, Chicago Tribune, 28 aprile 2002.

22- Reports of Rape, looting by Afghan militiamen, San Francisco Cronicle, 15 febbraio 2002

23- Give me security, than I will remove my burqa, The News International 31 gennaio 2002

24- I gruppi più estremisti,come i 'Recostructionists' , progettano la restaurazione della teocrazia e della schiavitù e sostengono l'estesa applicazione della pena di morte (alla maniera biblica, cioè per lapidazione o rogo), ad adulteri, blasfemi, ererici, omosessuali, idolatri, prostitute e 'streghe' Cfr. Toni Maraini, Per una rinnovata riflessione sui fondamentalismi oggi, comunicazione al Seminario Internazionale "Donne che non vogliono tacere", Pisa 24 marzo 2001, inedito. Reperibile in internet: www.wforw.it/Maraini.html

25- L'Army of God è anche coinvolto nella micidiale esplosione nel Parco Olimpico di Atalanta in occasione delle Olimpiadi del 1996, nonché nella diffusione delle lettere all'antrace dopo l'11 settembre 2001. Lo denunciano documenti della Fondazione Feminist Majority : http://www.wforw.it/antrace.html

26- Marilyn Henry Jewish groups fight for the rights of "chained wives , 1998. In www.jewishsf.com. Traduzione italiana in www.wforw.it.

27- Caroline Fourest L'ONU, le Vatican et les pro-life in ProChoix n.14, maggio-giugno 2000

28- La legge 194 sull'interruzione di gravidanza è messa seriamente in pericolo dalla proposta di riconoscimento giuridico dell'embrione, e già da parecchio tempo gruppi cattolici integralisti mettono in atto macabre strategie dissuasive contro le donne che decidono di abortire. Secondo le denuncie del Coordinamento donne per l'autodeterminazione, a Bologna, cortei con carrozzine vuote o foto di bimbi e di feti sfilano davanti agli ospedali dove si pratica la 194, e sono state denunciate pressioni sul personale sanitario perché chieda alle donne che vogliono abortire dove preferiscono che il "bambino" sia seppellito.

29- "Afghanistan, anno zero. Adesso vivono nelle caverne": è il titolo di copertina del Venerdì di Repubblica del 15 marzo 2002.










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